Per l'intero mese di luglio 2009, la "Poesia" si è fermata qua, a Lido di Camaiore al Circolo Culturale "Convivio".
E' tutta concentrata sui quadri di Gian Paolo Giovannetti nella rappresentazione della sua terra con i paesaggi onirici ai piedi delle Alpi Apuane, abitati da figure remote di cavatori e delle loro donne.
E' da questi ricordi e da questi personaggi che è nata la pittura di Giovannetti, una pittura personale che qualche volta si può dire persino metafisica, tanto è interiorizzata e trascendente.
I colori densi di materia sono stesi con sapienti sfumature che lasciano filtrare una luce sempre calda e soffusa che rende i paesaggi surreali e fantastici.
La luce e la sapiente stesura dei colori oltre alla originalità dei soggetti, sono le caratteristiche più qualificate di Giovannetti che ne fanno un artista vero e completo.
Un autentico personaggio versiliese.
"... I personaggi, dice l'artista, sono i cavatori che mi raccontavano le favole quando bambino si attardava con loro nel bar della piazzetta del paese. Non a caso la "Piazza del cavatore" è conosciuta anche come la "Piazza delle Chiacchiere" e questi personaggi, che l'uomo d'oggi rappresenta con le loro donne, come soggetti principali dei suoi quadri, non hanno la faccia rugosa, arsa dal vento e dal sole, indurita dalla fatica, ma hanno una faccia levigata, statica, quasi incantata., perché Giovannetti li ha trasfigurati nella sua fantasia e ne ha fatto personaggi senza tempo…"
Ton souvenir en moi luit comete un Ostensoir (Baudelaire)
Sempre in Giovannetti è un medesimo spazio, da fiaba! Un sogno che ossessivo si ripete; l'immagine di un tempo notturno che resta ansiosamente sospeso, come in attesa d'un evento che rompa un nocivo sortilegio: d'una vita sepolta che torni a risorgere all'improvviso. Mesti simulacri, vi affiorano le tracce d'un'infanzia remota, troppo sofferta e amata perdutamente.
Attonita una luna malva di continuo vi si sporge sul profilo di monti severi, mentre i tetti d'un borgo abbandonato sono rimasti soli a sopportare tutto il peso del mistero del cielo. E più innanzi lì accampati, fasciati da una limbica luce, ecco i volti confidenti delle creature più desiderate. I segni dei riti più consueti d'una vita felice e mutilata! Piccole volpi il cui sguardo trapunta il buio di mite e misteriosa malizia e ragazzi smaniosi di catturarle per i loro giochi; galli già pronti per gridare l'alba e le cestine d'uova benedette per una Pasqua annunciata soltanto.
Da oltre vent'anni fedelissimo alle sue radici alto-versiliesi, Giovannetti ha scavato e va scavando, in una memoria che seguita in lui a sanguinare come una ferita, quest'essenziale patrimonio iconico. Un tesoro dissotterrato e strappato alla notte! Egli vi allestisce le sue "sacre" rappresentazioni, per quanto sacrale possa e debba essere considerata la memoria della propria origine, in un'epoca in cui essa viene costantemente e impunemente dissacrata.
Ma nelle opere più recenti la sua attenzione s'è soprattutto concentrata su ognuno dei personaggi chiave che popolano queste sue scene dei giorni inabissati. La loro figura risulta allora quasi sempre isolata. Uno scafandro luminoso la fascia e la protegge. Palombari d'un'anima indecisa, questi volti pensosi emergono dal buio del ricordo, dragando gli abissi d'un mare inquietamente minaccioso e agognato. (Monocromatici i fondi, finemente smaltati, traslucidi, si caricano anch'essi di enigmi. Nell'onnipresente accensione dei rossi, nella tenebra vellutata dei neri, affetto e paura aleggiano attorno a loro!)
Volti che attraversano ogni età dell'esistenza: di maturo cavatore dai tratti subbiati nel marmo o di tenera ragazzina che tenta di schiudersi invano a un sole inesistente. A ognuna di queste decorose solitudini, l'autore presta una sua verosimiglianza, come se volesse espandere - lui unico, geloso custode della loro memoria! - in ciascuna di loro la malinconia pudica d'un suo autoritratto interiore.
Giovannetti gioca allora a trinarne i colori con una filigrana decisa, quasi a ricordare l'ordito di vecchi tessuti grezzi e resistenti, tirati a mano su antichi telai. Così da un'iniziale esigenza illustrativo-fiabesca egli giunge per una via di crescita del tutto naturale alle soluzioni attuali di un'arte "povera" assai originale.
In questa sua insopprimibile archeologia della memoria egli recupera e inserisce nell'opera reperti, testimonianze, cimeli di questo suo mondo ossessivamente difeso nella sua persistenza. Ne diventano una concreta metonimia; oggetti-cose, eletti a scongiurare il vuoto dei senza radici; o l'incapacità di adattamento alla smemorata quintessenza d'un linguaggio massmediale che brucia e consuma nell'atto stesso del suo farsi le ragioni del suo significato.
Questi frammenti di vecchie porte, di finestre, di sacchi o di tessuti non parlano pittoricamente di per se stessi, come poteva accadere nelle soluzioni tipicamente oggettualistiche di certa "pop art"; e sarebbe davvero un grande errore considerare Giovannetti un suo epigono tardivo. Al contrario egli riesce a restituire ai preziosi reperti d'una civiltà pre-consumistica tutto il loro sacrale mistero d'uso. Essi degnamente decorano e s'integrano nelle parti dipinte dell'opera. Si fanno cornice, o veste di quelle figure, soprattutto femminili in cui il "pathos" del ricordo più intensamente condensa un eros esclusivo e tenace verso una donna-icona che assomma in se stessa tutti gli attributi del femminile: madre-madonna-sposa; e forse ancor più ambiguamente maga che presiede a tutti i riti di nascita, amore e morte.
L'originale struttura che ripristina lo spazio protetto e misterioso del tabernacolo attesta quest'inconscio bisogno di risacralizzarne l'immagine; di ripristinarne in qualche modo un suo culto abolito; o forse contraddittoriamente di esorcizzarne l'amorosa invadenza. Nel grande "Tabernacolo della Regina" abbiamo la sintesi più riuscita di questo assembramento fra manufatto e dipinto. Quasi si trattasse d'un'antica pala d'altare, in una cripta del ricordo, gli scuri si schiudono adagio sull'immagine desiderata: madre o amica, che importa? Ella è là ad incarnare non soltanto un complesso affabulare dell'artista nel suo accostarsi in punta di piedi alla sua donna notturna.
Velata, nella sua essenziale bellezza, ella si fa incontro anche a noi: figura mitica e regale d'un immaginario collettivo versiliese in cui il corpo della montagna temuta, come quello della compagna amata serbano il candore della loro grazia tenacemente segreto.
Gian Paolo Giovannetti
L'anima di un paese
In lui riemerge come in una fola
Come un tesoro affondato, ognuno si porta dentro il volto dei luoghi e delle creature che lo "meravigliarono" bambino. Un tesoro che, con ben oltre trent'anni di pittura, Giampaolo scandaglia negli abissi della memoria, dissotterra dal silenzio degli anni e delle nostre rovinose mutazioni, tenta di strappare alla notte impietosa dell'oblio. E ancora, ansiosamente, v'insegue quel senso di sacrale stupore delle cose che si è dissolto dalla nostra vita. Torna ad un originario paese dell'anima, piuttosto che a quello vero che ancora s'incastona in una ghirlanda di castagni e di cave. Soltanto gli occhi del sogno riportano dove si è nati. E sempre come sognata, come narrata in un' antica fola, la sua Giustagnana riemerge. Balenano queste sue "visioni" come icone di un remoto mondo mutato o scomparso. Figure che la filigrana di una pittura dal tratto minuto, giocato su pochi toni, quasi a ricordare l'ordito di vecchi tessuti grezzi e resistenti, tirati a mano su antichi telai, sospende in un'aura evanescente e avvolta di mistero.
La notte annulla ogni prospettica profondità: generazioni diverse s'affollano sullo stesso piano: volti d'anziani cavatori e bambini, musi di volpacchiotti e profili di calve civette, ognuno sembra tornare da un suo aldilà per rivelarti un segreto (Gli amici che non si scordano).
Lontano inverno di marmo e luna: in un medesimo abbraccio come solidali si stringono i colli e le case, il mite ragazzo dal basco nero, la sua piccola volpe amica che riesce a vedere oltre il buio, sa vedere oltre il buio (Dopo la neve). "Ecco un paese notturno arroccato a torre, eco di un sintetico resoconto cubista, con case sigillate senza finestre, immerso in diafane luci e un silenzio che tutto comprende e consola (Case di notte). Accade allora che sia lo stesso pittore, seppure alme-no in un sogno dipinto, a porsi come vigile sentinella di questo suo paese fatato. In un sobrio autoritratto, eccolo quasi imporsi come un principe austero e solitario, che ancora non ha perso la saggezza dei padri, né la memoria di tanta sofferenza passata. Ed è proprio questa sua veglia d'amore a rendercelo così umano e vicino".(Op. cit.)
Non è facile "sentire" un artista, viverne il processo e il metodo di comunicazione, comprenderne - o meglio assimilarne - l'interiore spirito costruttivo. Anche perché ogni uomo - e il problema si pone con più intensità quando ci riferiamo a un artista - ha una sua genesi, una sua collocazione storica che concorrono alla sua evoluzione, alla sua ricerca mai definitiva, mai conclusa.
Quasi come percorrere il naturale evolversi di una farfalla che dalla larva e poi dalla crisalide si trasforma e giunge alla sua manifestazione piena volando con ali policrome. Ebbene, ho la sensazione - anche perché più volte ho seguito con interesse le esposizioni dell'artista - che dopo gli iniziali tentativi il volo tecnico-espressivo di Gian Paolo Giovannetti si vada perfezionando e maturando. Non "colpi di testa", non strappi violenti, non adeguamenti a cosiddette scelte che spesso sono il risultato di accettazioni passive e non di spontanea creatività.
Uno scavare continuo per identificare l'autenticità personale, per portare alla luce il filone più puro, più valido. Il mondo nel quale Giovannetti è nato e cresciuto ha inciso profondamente nel suo formarsi, nel suo restare vicino alla tenacia del cavatore impegnato a trarre alla luce il marmo senza strappi e difetti. Ed a scavare nell'intimo del nostro artista si ritrovano, marcati, i segni del grande passato pittorico (e azzarderei anche scultoreo) toscano e, con motivazione tenue, il sentimento religioso del francescano Cantico di frate Sole, del santo "che parla agli uccellini e dà la mano ai lupi", cogliendone il significato perenne, essenziale che cancella la temporalità e ci dà la contemporaneità.
E così il figurativo non scompare, ma si accentua, si articola in espressioni vive, incantate o sognanti, attente o intense, talora drammatiche in un alone di colori che ricordano il rosso intenso o talvolta sfumato del tramonto del sole invernale davanti al pontile di Forte dei Marmi o il cinereo-ceruleo del post-tramonto sulle pareti aspre e marmoree dell'elegante Monte Altissimo: l'ambiente insomma dell'alta Versilia, degli abitanti della montagna, dei cavatori schietti e laboriosi tra gli agglomerati di piccole case dove Gian Paolo ha motivato e consolidato la sua formazione caratteriale e culturale.
Un mondo che Gian Paolo Giovannetti non ha dimenticato mai e che ha contribuito ad affinare una sensibilità delicata e concreta al tempo stesso, costituendo la base del suo volo artistico.
[ ... ] Ed eccomi finalmente nel salone della mostra di Giovannetti. Guardo i quadri della produzione 1990-91 e vedo subito la novità: i vecchi volti dei pastori, dei contadini, dei profeti, degli apostoli, delle ragazze dipinti da Gian Paolo sono intabarrati in mantelli di tela autentica sapientemente adatti al colore dei personaggi dell'artista di Fabiano. È una indubbia novità questa unione tra la vernice e il sacco vero che riveste queste tristi e pensose figure.
Non c'è da domandarsi mai perché le figure di Giovannetti ti guardino sempre così severamente. Come potrebbero far diversamente, specie quassù, dove la vita tende a restringersi, dove solo i vecchi ritrovano se stessi, dove davvero la volpe sembra aver la meglio? Questi volti ti mettono sotto accusa ed ora, attraverso i mantelli di tela, sembrano addirittura nascondersi avendo quasi ripreso dentro di loro il fascino autentico e misterioso della clandestinità. Sono le sentinelle dell'isolamento in cui da sempre vive abbandonata la gente della nostra montagna, e quella volpe che esce dalle loro tasche è il segno della furbizia, unica speranza per chi, dentro, ha soltanto il magone della rabbia.
Guardo le ultime opere di Gian Paolo, quel paesaggio rosso, quella casettina aperta che dischiude, a mo' di tabernacolo, un altro dei tanti personaggi intabarrati di tela fino al collo. Dò un'occhiata all'album delle firme dei visitatori e mi rendo conto che sabato, in questo salone di Fabiano, c'è venuto un mucchio di gente. Il vernissage ha avuto dunque successo.
Parlo con Giovannetti di mostre, di critici, di pubblico. Confronto le mie esperienze con le sue, anche se è molto più giovane di me. C'è sempre, in lui, una grande tristezza, forse derivata da una innata modestia e da una certa forma di timidezza. Ma c'è anche tenacia e testardaggine. [ ... ]
[ ... ] una spiccata impronta personale determinata dalla assunzione dominante del rosso nelle varie sfumature consentite dal più "patologico" e difficile colore della tavolozza che, dosato convenientemente, crea un armonioso contrasto di luci animate e quasi mobili.
L'antica storia della Versilia e la cultura della sua gente affondano le proprie radici nelle comunità, nelle bellezze e nelle risorse offerte dalle Alpi Apuane. Qui si fonda l'ispirazione di gran parte della cultura versiliese, della quale Giovannetti è uno dei migliori interpreti. Egli ha però saputo guardare anche oltre i confini versiliesi e percepire i messaggi dei diversi movimenti artistici, passati e contemporanei che, pur ancorati a riferimenti figurativi, hanno dato una interpretazione fantastica della realtà.
L'evocazione di temi che trovano ispirazione in situazioni ataviche della storia popolare della Versilia si ritrova nei soggetti e nei titoli della ventennale rassegna estiva del Giovannetti a Fabiano. Nei suoi cavatori e nelle sue donne, che sul capo trasportano "sfalci" di bosco o di campo, ritroviamo anche la magistrale interpretazione della durezza e fatica del lavoro della montagna.
Ecco: questi volti femminili tondeggianti e assorti esprimono condizioni di povertà, ma anche sentimenti antichi di nobile umanità e di carattere fermo e forte. Lo spirito del mistero e del fantastico, che in diverse opere del Giovannetti si coglie con singolare evidenza, è la dimostrazione della grande capacità interpretativa della cultura popolare versiliese.
Gian Paolo Giovannetti non ha cercato il mercato e non ha mai lavorato per vendere. È logico quindi che i suoi quadri non potranno mai essere pezzi di arredamento, da accostare ad altri mobili, come lo sono la maggior parte dei dipinti che vediamo nelle cosiddette "gallerie d'arte", specie in estate per le vie della marina.
La sua pittura non è stata mai una semplice ricerca cromatica, volta a impressionare, attraverso esplosioni di colori, il turista della domenica. I colori di Gian Paolo hanno una loro vera storia: sono quelli della gente della Versilia, dei Monti e delle Cave.
I suoi verdi, i rossi, gli stessi azzurri e i blu, i gialli, gli arancione sono il più delle volte tenui, delicati perché riflettono i mesti stati d'animo di un popolo che è nato e cresciuto all'ombra e al sole del lavoro delle cave. Un lavoro duro, doloroso, spesso tragico che è stato tramandato da una generazione all'altra, che ha spezzato centinaia e centinaia di vite di nostri figli, padri, amici e fratelli. La pittura di Giovannetti è il ricordo e la memoria storica di questo grande dolore e di questo immenso sacrificio.
Nel panorama contemporaneo dell'arte, dove la sperimentazione, la ricerca del nuovo, l'utilizzazione di tecniche e materiali spesso condotta fino ai limiti dell'esasperazione rappresentano ormai una costante universale, l'opera di un pittore come Gian Paolo Giovannetti potrebbe sembrare - nella sua continuità tematica - troppo statica e povera di fermenti culturali.
Del resto certe sue figure, che sembrano ritagliate nello spazio, scolpite più che dipinte, nella loro immobilità ieratica riconducono a una realtà di tempi e luoghi perduti, a una vita così distante dalla nostra presente da apparire come un relitto etnografico.
Ma se è vero che la poetica di Giovannetti ha radici nel mondo antico e silenzioso della montagna, delle cave, della gente povera e giudiziosa, abituata alle fatiche e ai sacrifici nell'immoto castello di case a grappolo, paesi di pietra e sole, argine a ogni novità e mutamento, pur tuttavia quella stessa poetica si è man mano distillata nell'alambicco di una sensibilità originale, aperta alle lezioni della migliore pittura, caparbia sì, lungo una linea d'indagine che rifiuta il canto delle sirene, ma attenta a rivelare linguaggi nuovi, fresche voci attinte dall'esperienza, sollecitate dagli stupori che la natura, le cose, gli uomini ancora sanno infondere, nonostante i tormenti e i danni di quest'epoca disumana.
Perfino la scelta, recente conquista espressiva, di materiali i più semplici, consumati, abbandonati, perduti, poeticamente recuperati a una loro intima dignità, che Giovannetti usa in disinvolto connubio con le figure-simbolo della sua narrazione, testimonia del sofferto transito di questo pittore attraverso la memoria e la coscienza della cultura popolare, in una dimensione che trascende - nel suo farsi poesia - ogni limite di spazio e di tempo.
Ora vive a Forte dei Marmi, ma lo studio lo mantiene a Fabiano, nell'entroterra, sulle montagne del Seravezzino, lontano dai colori artificiali, dagli aspetti finti della vita, dai clamori della pazza folla. Una scelta che mi piace, coerente e vera. Gian Paolo Giovannetti lo conosco poco, ma quel poco mi basta per dire che lo stimo per l'uomo e per l'artista che è. L'originalità di Giovannetti è lo spontaneo e sincero attaccamento alla sua terra, alla sua gente, alle sue radici che affondano nelle cave di marmo, nei boschi e nelle selve Apuane, nella storia della Versilia che, nelle sue opere, si fa leggenda. Il nibbio, la volpe, il cavatore, le case di sasso e lavagna sono i personaggi e i luoghi di un'età senza tempo eppure così materiali e veri. In un continuo "effetto dissolvenza" quei racconti e quelle storie narrate su tela ci testimoniano l'epicità della vita con una semplicità e un'aderenza profonde. L'auspicio è che, nel progredire della ricerca, la genuinità di Giovannetti non abbia a scolorirsi e a perdersi. Resti quello che è sempre stato, ancor oggi incontaminato artista come se ne conoscono pochi, un grande narratore di verità vere come sono le sue opere, i suoi lavori di pittura e di scultura.
Mi va di soffermarmi sulla mostra delle opere di Gian Paolo esposte nel piccolo paese di Fabiano l'estate passata. È un appuntamento quasi ventennale che il pittore dedica alla gente della montagna. Ormai è una tradizione.
Col passare degli anni ha modificato in parte il suo stile: si sono viste forme di pittura tese al recupero di un tempo che fu; ante dipinte come per far rinascere attraverso stretti spiragli sensazioni antiche. Ma il suo mondo è ormai noto e si racchiude in quei volti rudi, in quelle pieghe della faccia, in quegli occhi vispi e penetranti che spaziano in infiniti mondi. Un mondo universale dove il linguaggio è la fatica, la perseveranza, la lotta per strappare al monte il pane quotidiano. Un mondo fatto di cose semplici dove la donna è sempre presente con la sua gioventù e con la sua freschezza; o anziana, sinonimo di saggezza. Il racconto della sua pittura è malinconico e severo; protagonista è il legame di questo uomo con l'ambiente che lo circonda, con la sua gente, con le sue case, i "muri viventi", con le sue piane e i suoi monti.
Ai piedi della Pieve della Cappella abbiamo stretto la mano a "Un Uomo Venuto da Lontano" che sicuramente lascia in eredità un messaggio indissolubile fissato sulla tela.
Di Gian Paolo Giovannetti mi sorprende sempre l'innocenza che esce dai suoi quadri e quella "falsa" immobilità che è solo ritorno, ricomparsa. Sono figure che vengono a popolare la terra di Versilia d'oggi da un mondo lontano fatto di persone e di paesi che erano legati alla terra, alle stagioni del bosco. È una Versilia profonda, che d'un tratto riappare con tratti e sembianze rinascimentali, con volti di composta sorpresa, di uno stupore indifeso.
Sono una nostalgia e una favola vere. La nostalgia di un mondo non conosciuto, di radici ignote e sofferenze cancellate che, in qualche modo, chiamano l'autore da lontano; queste sofferenze non sono state invano, ma si legano a noi e trovano posto in un percorso di verità e di giustizia che ci riguarda tutti.
La pittura di Giovannetti evoca una storia che non è mai stata scritta, e ce la racconta con una gentilezza composta, con una sofferta dolcezza.
Seguo da oltre vent'anni, da Milano, il lavoro artistico di Gian Paolo Giovannetti, che ho conosciuto una sera, giovane e irruente, alla Trattoria dei Castagni di Giustagnana. In questo catalogo, amici e critici hanno delineato molti aspetti della sua pittura, evocatrice di un mondo sofferto e antico, di paesaggi e uomini colti con dolorosa simpatia nella loro immobile solitudine.
Da oltre vent'anni Giovannetti percorre questo cammino alla ricerca del suo mondo più vero e segreto.
Venire ogni anno dalla grande città per ammirare, a Fabiano, i suoi quadri significa tornare un poco alle origini, al mondo segreto che è comune a tutti gli uomini.
"La conoscenza, e poi l'amicizia con un artista quale è Gian Paolo Giovannetti, la devo essenzialmente al critico d'arte e giornalista Lodovico Gierut, con cui ho curato - come penso molti sapranno - l'esposizione collettiva, di gran successo, "Conosci la terra dove fioriscono i limoni?" - tenutasi a Calcinaia nel mese di ottobre 2006.
Senza entrare perentoriamente nel merito dell'esposizione di oggi, valutata con estrema attenzione da altri, ho potuto ammirare l'attenzione, la serietà, la meticolosità con la quale Giovannetti ha preparato "I protagonisti della terra rossa".
Con lui ho parlato a lungo della Versilia, che è la sua terra, e della zona pisana, le quali hanno avuto nel tempo una serie di scambi culturali.
Nelle tante argomentazioni non sono mancati i nomi di amici comuni quali Lapi e Pacini.
Non possono essere stati dimenticati, nelle conversazioni, il famoso critico letterario Piero Bigongiari, nativo di Cascina, e neppure un insostituibile storico d'arte, pisano, di gran livello, quale è stato Fortunato Bellonzi - il cui nome è stato evidenziato da Gierut in varie occasioni - e neppure il pittore Viviani.
"I protagonisti della terra rossa" di Gian Paolo Giovannetti, secondo il mio parere, altro non sono che la realtà autentica, indimenticabile, di quell'area toscana fortemente legata sia alla tradizione, sia a quell'idealismo sociale che non conosce ostacoli.
In ogni tempo.
Nella mostra organizzata dal Comune di Calcinaia c'è - vera - l'arte di Giovannetti, con la sua poesia, col suo modo d'essere se stesso, sino in fondo.
È, in definitiva, una esposizione, che nella figurazione, nei segni e nei simboli, rende in pieno un lavoro serio e coerente. È "il lavoro di Giovannetti"".
"La umile Pieve... era là, nel fondo, piccola piccola, con gli archetti color d'ombra e i cipressetti sul piazzaletto della chiesa, il campanile di mattoni fioriti; confinava con una viottola color rosa che portava al cimiterino simile a un orticello fiorito...". Lorenzo Viani, Il figlio del Pastore, 1930.
Paese di montagna, paese dell'infanzia e dei ricordi, verso cui il pensiero e la mente volano sempre: Giustagnana.
Osservando i paesaggi e gli sfondi, nei profili geometrici delle case e nella sinuosità delle colline, si riconoscono realtà locali care al pittore e il pensiero corre ad un altro artista versiliese, Viani, la cui ispirazione spesso è rivolta ai ricordi di un mondo i cui ritmi sono scanditi dalla fatica del lavoro, dalle stagioni, dalla natura. Si percepisce in questa affine sensibilità espressiva una condivisione di valori, un legame con la propria terra, l'Alta Versilia, con le origini di Gian Paolo Giovannetti. Da qui ha inizio il viaggio nella memoria. Qui ha origine la poetica del pittore: in un luogo senza tempo, mitico, sospeso tra passato e presente, tra realtà e favola, ogni elemento trova un proprio spazio e una composta dignità.
Le figure silenziose e solitarie dei cavatori, dei contadini, uomini di montagna affaticati dal duro lavoro, le giovani donne, mistiche e carnali insieme, i bambini, avvolti nei loro calorosi mantelli, evocano grandezza e semplicità. Lo sguardo si sofferma a leggere nei loro occhi austerità e saggezza, autenticità e mistero, desiderio e spiritualità. Ogni elemento sembra caricarsi di suggestioni e simboli che riportano alla memoria di un luogo e un tempo segreti e surreali. Così è per le volpi, che giocando sembrano danzare in una notte di neve, dinanzi al ricordo degli occhi del pittore.
Luoghi, personaggi e cromatismi rossi dell'ultimo periodo disegnano un percorso di "eterno ritorno" della memoria; momenti forti che riaffiorano dall'interiorità.
Questi sono "i protagonisti della terra rossa" e argillosa dell'infanzia, simboli, scolpiti nel cuore, di un mondo i cui valori e la cui forza vivono ancora grazie alla poesia di Giovannetti.
Un pensiero di Leopardi dello Zibaldone dice: "L'uomo non desidera di conoscere ma di sentire infinitamente… e ciò principalmente con la immaginazione, non con la scienza o cognizione la quale anzi circoscrive gli oggetti e quindi esclude l'infinito". Ebbene questo pensiero del poeta di Recanati ci sembra che possa adattarsi, essere congeniale alla arte pittorica di Gian Paolo Giovannetti e cogliere il nucleo della sua ispirazione, e soprattutto la forza del suo 'sentire' proprio nel senso che ne parla Leopardi.
I suoi quadri, siano essi paesaggi o figure o animali sono un grande atto d'amore per la sua Versilia, per le sue Apuane, una felice e suggestiva testimonianza del suo 'essere' e non 'apparire'.
Gian Paolo Giovannetti prima scultore e successivamente pittore, nasce a Giustagnana di Seravezza nel 1948 e ha dietro trent'anni di intense fatiche pittoriche - e fra le numerose mostre allestite in Italia e all'estero, ricordiamo quelle di Milano del 1993 e la recente a Seravezza nel Palazzo Mediceo con un interessante e nutrito catalogo che può anche configurarsi come una fascinosa monografia completa nei suoi dati ed elementi più importanti oltre ad una riproduzione di testi critici e di immagini delle opere. Proprio in queste immagini si può ammirare, soprattutto 'sentire' l'amore e il rispetto - come dice lo stesso Giovannetti - per quelle 'zone alte' versiliesi dove il mistero, la poesia e la realtà del quotidiano vivere lo hanno portato a dipingere con assiduità e passione.
La mostra di Seravezza 1970 - 2003 e il volumetto che l'accompagna sono stati presentati con il titolo che ha qualcosa di misterico "Icone" con una acuta introduzione di Marcello Polacci (oltre alcune brevi note illustrative del Sindaco di Seravezza Enrico Mazzucchi e dell'Assessore alla cultura Danila Giovannetti) che ripercorre agilmente, con sobrietà il complesso 'iter' artistico del pittore mettendo bene in luce che "Icone" non devono essere interpretate nel significato più tradizionale della parole e della storia religiosa, ma più propriamente devono esser viste come manifestazione della spiritualità che può avere anche un senso profondo di religiosità per cogliere attraverso i colori, attraverso i paesaggi, i volti, gli animali con rigore stilistico il mistero, l'attesa, la solitudine che c'è nei quadri e che è parte fondamentale del nostro 'sentire'.
Ed ecco "L'uomo e le tre volpi", "Cenacolo", "Il sogno di un mattino", "Figura", "Una notte vedendo le volpi giocare". C'è un'altra sensazione che abbiamo provato scorrendo il volume e ammirando le riproduzioni dei quadri assi riuscite (pensiamo al "Cavatore apuano", a "La regina dei fiori", "Il berretto nero"), è che in tutte queste opere e anche nelle altre che non abbiamo potuto citare anche per ragioni di economia della nota, circola, così ci sembra di averla individuata, cioè un profondo senso di inquietudine, di durezza dei volti e dei paesaggi. Quella "durezza" e non fraintendiamo le parole, che scorgiamo quando dal mare, dalla riva voltiamo lo sguardo all'indietro, in una giornata bellissima guardiamo le Apuane e che ci danno un sentimento di bellezza ma anche di soggezione, per qual mistero cui sembrano avvolte.
Polacci scrive nella sua nota critica che non si deve parlare di una "raffigurazione naturalistica - e noi siamo d'accordo con lui - secondo schemi e tecniche tradizionali con figure facilmente riconoscibili ma solo apparentemente di facile lettura, racchiuse nel loro misterioso fascino", ma vi è un qualcosa che va ben al di là di simbolismi e ansie metafisiche.
Giovannetti ci fa 'sentire' e amare e capire, i suoi cavatori, le sue volpi, l'inimitabile paesaggio apuano, l'alta Versilia, rompendo ogni circoscritto e tradizionale confine.
Non adopera la scienza e la cognizione secondo il monito leopardiano, ma dando ascolto alla sua pulsione creativa, ricca di immaginazione con ammirevoli risultati stilistici e accompagnandoci a svelare il mistero, l'ignoto che è sempre in noi e che, leopardianamente ancora una volta, ci spinge verso l'infinito.