Uomo di montagna - pittore - che scende al piano senza farsi contaminare spiritualmente dalle mode che al piano prolificano: rimane se stesso, con dentro la crudezza realistica di chi vuole dipingere i compagni di vita della sua terra, ma che lo vuole fare con lo stupore e l'incantamento che furono tipici di quella sua prima infanzia. Questo è Gian Paolo Giovannetti.
E poi, negli ultimi trent'anni, accaddero naturalmente i tanti mutamenti, le prime incertezze sulle tecniche da seguire, sui generi da prediligere. L'accademismo che si viene sempre a scontrare con la naturalezza della visione: è questa la situazione ambientale e culturale in cui si viene a formare la personalità del pittore Giovannetti, approdato oggi a tecniche e forme più congeniali alla sua sensibilità e al suo estro.
Il primo ricordo - su cui ritorneremo - riguarda l'immagine delle sue volpi, nate da un immaginario innocente, gli appaiono non come depositarie dell' atavica astuzia ma come amorevoli creature da tenere al caldo dei mantelli per un colloquio affettuoso, continuo.
Le sue origini di scultore sono evidenti se guardiamo la pesantezza di pietra dei mantelli dei suoi personaggi, che circondano volti che sembrano immagini trecentesche, recuperate per necessità di tipo arcaico e misticheggiante. Ci si rende conto come i suoi maestri di Accademia lo abbiano aiutato a capire i valori del marmo quale delicata materia dedita alla monumentalità, ma anche alla tenerezza delle cose del quotidiano da scoprire e interpretare. Tuttavia la plasticità non sparì al sopraggiungere del colore: seguitò a manifestarsi secondo cromie diverse e il passaggio alla pittura (avvenuto sul finire degli anni Settanta) non rappresentò che l'esteriorizzazione di una visione che andava interiormente tramutando piani e vuoti entro gli spazi di una nuova luce, quasi che i contenuti avessero bisogno ora dei colori per manifestare tutta la prorompente passionalità di personaggi in cerca di calore umano.
Era naturale che il deposito memoriale offrisse a piene mani il ricordo di una adolescenza ancora vicina: il segno nero dello scultore, dedito un tempo alla preparazione grafica e scultorea, s'ispessiva coloristicamente secondo intenti descrittivi di ben altro significato e la tridimensionalità cedeva alla calda esaltazione del primo piano (il volto, un abito) che relegava sul fondo i lineamenti di minuscole città quasi giottesche per semplicità di linea e austerità di forme. Era la pittura la tecnica nuova che consentiva a Giovannetti di dare inizio al suo 'racconto' figurale. Semmai la scultura seguitava come memoria a suggerirgli la ricerca di alcuni materiali da porre sulla superficie, una specie di svago preparatorio durante il quale i colori si distendono con una certa severità: sono i legni o le iute, ritrovate nelle soffitte tra vecchi reperti di mobili e di stracci, che fanno da controcanto interiore alle figure che si accampano solennemente su quel materiale cercato con amore e con pazienza creativa. E ovvio che tanti fattori abbiano agito su Giovannetti come retroterra di estremo interesse, materiale da indagare per poter giungere ad una valutazione serena ed attenta del suo lavoro di pittore. Ed allora siamo costretti a ripetere che l'infanzia ha lasciato tracce profonde in chi ha avuto la sensibilità di guardarla e di viverla con affettuosa attenzione: anche perché, nel tempo, più la vita adulta si fa cattiva e opprimente, più quel passato risorge con prepotente tenerezza. La montagna era, per Giovannetti, neve e silenzio, rifugio e meditazione. Ora quella realtà riaffiora per simboli, per figure rappresentative di nuove e inaspettate attese, per ricondurci non tanto alla sentimentalità di allora ma alla presente crudezza dei rapporti col mondo e con gli uomini che quella sentimentalità fanno rimpiangere. E allora, per rendere compiuta la fase del passaggio dal sogno della memoria alla realtà della tela , necessita che il linguaggio nasca attraverso la razionalizzazione del tempo passato per offrire alle immagini la loro sostanziale forza stilistica e l'invenzione di simboli figurali emerga fino a divenire testimonianza dolente di un oggi inquieto e non precaria e illustrativa reminiscenza dell'ieri. Il miracolo della rievocazione mentale avviene su questo picco creativo, per cui l'epoca prediletta sparisce (la verità della volpe, della montagna, del cavatore) per introdurci in un presente che pretende forme nuove per emozioni già vissute.
In questo punto preciso si delinea la soluzione per l'attuale problema espressivo di Giovannetti. Il percorso è già iniziato, la raffinatezza del mestiere non manca, le scelte stilistiche si vanno affinando. Il tumulto dei ricordi con incalzante presenza - con tutti i suoi rischi e le sue violenze - e la prima risposta artistica di Giovannetti apparve già all'inizio ricca di una motivata tendenza a riprodurre in modo quasi primitivo luoghi e volti (Fabiano, presenze, 1989), e anche oggetti giocattoli frutta carri fienili, riuniti in una foto di gruppo di alto valore rievocativo: ma di quattro anni prima è la tela con le volpi abbracciate in un gioco animato da una circolarità affettuosa (Fabiano: una notte, vedendo le volpi giocare, 1985), in cui quella iniziale primitività pareva già conclusa in una personale e inedita rappresentazione espressionistica, nel senso che traeva dalla mente più che dagli occhi la sua potenza narrativa e misteriosa. La fisicità realistica si era smarrita a favore di una pensosità tutta incupita secondo un codice di alta drammaticità: fenomeno che si rinnova nel volto della Bambina in rosso (1993) e addirittura nella grande tela del 1984 (Leo, Mike e il pallone aerostatico) in cui la figura sdraiata si pone fuori linea in rapporto ai due volti, quasi per rivendicare lo spazio dovuto alla fantasia e all'invenzione, capaci di ricondurre l'opera dal piano della realtà a quello dell'irrealtà. I volti si rifanno alla severità del lavoro e della fatica, la donna 'chagalliana' trasferisce col suo volo la composizione sul piano della magia poetica. Il richiamo ai volti incappucciati nei loro panni pesanti offre un ultimo aspetto di sacralità medioevale a figure che si pongono come rievocazione di un dolore antico che, al di là delle fogge desuete, seguita a rimanere costantemente 'contemporaneo'. Egli così ricupera i supporti come materiale che reputa antico, anche per creare una maggiore armonia temporale in rapporto alla storia e all'evento che gli si presentano alla mente.
Non si dimentichi che Giovannetti oltre vent'anni fa iniziò a dipingere figure senza volto, già simboli di entità umane viste come volumi piegati nei loro paesaggi di solitudine (La funicolare, 1973; Paesaggio con figure, 1973), ma già era evidente il desiderio dell'artista di chiudere queste figure nella circolarità di segni incredibili per le loro segrete significazioni (La festa di San Rocco, 1973) o per farle sparire entro le geometrie succose e misteriose delle spaziature cubiste di rara efficacia (Cave di Trambiserra, 1984). Poi vennero le figure dalle mani ampie e ruvide nel ricordo di certi riconoscibili pittori milanesi dell'epoca e, infine, giunsero le composizioni semiastratte degli anni '77-'78 (Figure, La via della Cava, ecc.). È questo, del Giovannetti, uno dei tanti cammini percorsi dai buoni pittori che non si accontentano mai dell'ultimo risultato. Infatti poi si ebbe una serie di ritratti in cui il segno leggero donava allegrezza ai volti femminili e, infine, quella che poteva sembrare una caduta nel sentimentale (L'uomo e la volpe, 1989), mentre, a ben guardare, dopo la prima impressione a fior di pelle, ogni elemento inizia a vivere su quella tela una sua vita originale di estremo candore: la volpe come simbolo di un'antica umanità giovanile e l'uomo come simbolo di un' amicizia che sa appartarsi dal mondo pur distinguendosi tramite il rosso vivo del mantello.
E vero: le volpi seguitano a giocare nella iuta dei mantelli e rientrano con pari dignità nel gruppo degli uomini (Il sogno della volpe, 1992) o si affacciano maliziose dai seni delle donne: giovanette che nascondono nel rosso il loro pudore (Figura, 1995) e uomini che riescono a far mutare nei manti rossi o azzurri anche il colore stesso della volpe. E penso che non debba essere smarrito nella sua pittura quel senso di primordialità che ha caratterizzato da sempre il suo lavoro (Fabiano, 1966; Cavatori, 1966): anche le ultime opere, ottime per esecuzione e per chiarezza espressiva, dovrebbero ritornare alla scioltezza interpretativa di quelle prime tele. La maggiore luminosità e limpidità delle opere recenti vivono spesso a scapito dell'antica suggestione onirica che un tempo avvicinava innocentemente uomini e animali in un'atmosfera che aveva del magico e del surreale (in Mantello rosso, 1994, per esempio, la presenza pastellata della volpe che appare dentro il panno rosso non può sembrare un' aggiunta decorativa, ma deve ritornare a porsi come parte integrante del dipinto esprimente una fusione emotiva e stilistica). Credo che Giovannetti abbia ormai diritto a proporsi seriamente nel campo di una pittura che sia fantasia e anche disobbedienza illustrativa; e tuttavia se non e sempre facile ritornare alla limpida trasgressione lirica presente in Leo, Mike e il pallone aerostatico o in Fabiano: una notte, vedendo le volpi giocare, egli deve continuare a essere autenticamente se stesso, cioè deve saper trarre dalla propria interiorità il gusto della favola. E se lo attrae il desiderio di afferrare la bellezza interna di un anima e contemporaneamente la paura presente nel volto di una giovane, egli ricorra alla penetrante fissità e imperiosità della Donna in rosso del 1993.
Anche le case ammucchiate sui fondali lontani, a ricordo di una Versilia amata, devono far assumere alla visione significati non illustrativi e devono togliere al loro allineamento qualsiasi cadenza localistica troppo legata ad uno spazio e ad un tempo precisi. Giovannetti è un artista che respira l'affiato di una terra dominata dalla fatica e contemporaneamente arricchita dallo splendore di una luce che raramente ha l'uguale in altre parti del mondo. Questa terra, e la storia di questa terra, fanno ormai parte del suo vivere, nulla può essere dimenticato quando dentro sono rimasti episodi piccoli e pur grandiosi: un fiore donato da una bambina, un volto logorato dalla cava, la memoria di una leggenda che fiorì sul sacrificio di Sant'Anna e nell'atmosfera del dopoguerra. La mente e il cuore s'indurirono nel travaglio degli eventi narrati dagli anziani e certe figure dure e angolose portano ancora il segno di un dramma sfiorato: da qui l'attimo di smarrimento e di ritrovato umanesimo visibili in un particolare amaro, nella pensosità di un occhio, nella luce di un volto. Una pittura che pare uscire da una polla di estrema ingenuità e anche dall'assoluto bisogno di ripristinare nel mondo un ordine morale smarrito: del passato è rimasta qualche ombra di malinconia e la rigorosità di un giudizio racchiuso in un viso adulto. Ormai tutto è scoperto riguardo al gioco del vivere, ormai tutto ha provocato disincantamento. Alcuni fondi monocromi accentuano il distacco lasciando alla figura in primo piano il compito di raccontare totalmente e solo il dolore della sua storia.
Giovannetti ha soltanto avvertito l'influsso leggero di taluni Maestri della Versilia (Viani, per esempio) o il 'fiato' di uno Chagall che alita in qualche opera degli anni Ottanta e addirittura la sintesi semiastratta di una irreale montagna alla Music come nelle Cave di Trambiserra del '74, ma lentamente ha abbandonato le reminiscenze e ha individuato un suo 'modo' per fronteggiare l'urgenza della realtà e per tramutarla in una sua emozione. Ora la storia che vale è quella sua, nel bene e nel male, e conduce ad opere cariche di contemporaneità anche se prevale la rimembranza dei tempi andati, quasi esistessero due realtà interiori: quella fattasi memoria permanente e quella proiettata nella moderna rivisitazione delle cose, la quale non si fa moderna per l'impiego della iuta autentica che fuoriesce dalla superficie (anzi), ma soprattutto per i colori che si fanno contrappunto a quell'azzardato volume scultoreo. Forse col tempo le iute spariranno per non svalutare il momento pittorico e la 'verità' materiale verrà allora incorporata nei dipinti, ritornando le tele a farsi documenti delle inquietudini del Giovannetti che non ha bisogno di apparire moderno attraverso soluzioni concettuali o iperrealistiche. L'artista ha già fatto la sua scelta nell'ambito di una figurazione che non deve trovare il suo senso solo nella descrizione realistica dei particolari, ma che continuamente deve ricorrere al suo originario senso magico-fanciullesco, filtrato dalla nuova cultura, per toccare il cielo di una sua particolare verità creativa. E il percorso su cui Giovannetti va avventurandosi. I contenuti non mutano, ma muta il modo di viverli pittoricamente, di tramutarli in simboli pittorici. Di fronte alla validità di questa operazione perdono importanza i richiami nostalgici e le feste dedicate alla sua terra e alla sua gente. Il folclore è solo l'immagine di un rapporto affettuoso con l'ambiente, ma il nucleo creativo sgorga nella coscienza dell'artista che sa trarre dal passato motivi di alta riflessione morale: su tali motivi innesta la capacità tecnica e anche la sensibilità per l'oggi, in modo che le figure giungano a rendersi attuali per la segretezza interiore e l'inquietante modernità. Può anche darsi che le composizioni odorino di fame e di fatica, di amichevoli contatti con animali o con gli elfi delle notti boscose e paurose; può anche ritrovarsi, nella malinconia cupa di certi suoi fondali, l'isolamento di una gente che raramente scendeva a valle e, semmai, per scoprire in essa il mondo; ma il miracolo dell'arte è proprio quello di reincarnare realtà lontane per farle rivivere - quasi di nascosto - nei simboli di un presente che non ha più scampo al proprio disordine e alla propria violenza.
Mantelli e volti di un'età antica chiudono in sé gli stupori e gli spaventi dell'oggi, uniti alla timidezza di altri volti e alla perentorietà del loro esistere. Le radici sono sempre i centri segreti che spingono gli artisti a costruire e continuare il filo rosso di una storia da raccontare per trovare una ragione al loro esistere. Giovannetti avverte il bisogno di farci partecipi di un suo diario mentale che ci introduce nella sua storia e contemporaneamente costringe i personaggi a farsi parte di noi. La poesia naturale dell'artista fa da mediatrice a questo viaggio di ricca spiritualità. Giovannetti non può allontanarsi da quel patrimonio di sogni, magari proteggendoli verso ulteriori livelli di finezza formale, ma muovendo sempre dalla sua realtà, ora dimenticandola e ora soggettivandola nelle sue espressioni già così colme di malinconia e di tenerezza.
Aprile 1997